Il primo giorno di scuola.
Primo ottobre. San Remigio. Era la festa dei remigini, di tutti quei ragazzini, me compreso, cresciuti negli anni sessanta, che per la prima volta affrontavano il mondo scolastico.
Il colore arancio dei cachi appesi ai rami degli alberi rompeva la monotonia del verde e annunciava l’arrivo dell’autunno. I melograni nel giardino di casa si aprivano ormai maturi, mostrando il loro dolce e succoso contenuto.
Le fronde spruzzate di ruggine e marrone si muovevano nell’aria fresca. Venature ocra che viravano verso il rosso incendiavano i profili dei giardini e dei campi.
Nei campi, i contadini erano alle prese con il raccolto del granoturco. Tirannosauri dalle fauci rotanti ingurgitavano il frutto del lavoro dei mesi estivi. Ore dopo, i campi parevano oceani increspati di onde tinteggiate di miele sporco.
La sera qualche anziano che nel giardino di casa allevava poche galline, andava a raccogliere qualche pannocchia sfuggita ai denti del mostro meccanico.
Dopo alcuni giorni, i contadini accendevano nei campi, piccoli falò. Erano i primi segnali che la campagna si stava preparando alla stagione fredda. Le fiamme bruciavano lentamente le sterpaglie secche rimaste sul terreno umido.
Era un’immagine ipnotica, che mi emozionava e metteva in moto la fantasia. Le ombre della sera avvolgevano il paese. La bruma risaliva dal canale avvolgendo le piccole braci che brillavano nell’oscurità.
Le cucine delle case profumavano di castagne, vino novello, e di patate americane.
Qualche giorno prima dell’inizio della scuola, accompagnati dalla mamma, si andava a far compere nell’unica cartoleria del paese. Manco a dirlo questo negozio sorgeva accanto all’edificio scolastico. Appena ti affacciavi sulla porta d’ingresso eri investito dall’odore classico di cancelleria. Gli occhi, ma soprattutto i desideri di noi bambini, si posavano sulla miriade di colori a matita. Si spostavano poi, su quella specie di libri dove c’erano tanti disegni da colorare. La vera “tentazione” però si chiamava: “Pongo”. Una specie di plastilina colorata con cui plasmare strani animali, indiani e cow-boy. Astronavi spaziali.
A spezzare speranze e sogni, arrivava però, la voce perentoria della mamma.
“Signora… Ci servono: quaderni a righe, quelli per la prima elementare. A quadretti…!”.
Poi c’erano: il libro di lettura, e il sussidiario. Le scelte più difficili comunque cadevano sul diario e l’astuccio. Io preferivo quello con i personaggi di B.C. mentre per l’astuccio ce n’erano di vari formati e prezzi.
12 – 24 – 36. Questi numeri corrispondevano alle matite colorate inserite all’interno. Erano in plastica colorata con gli eroi dei cartoni dell’epoca stampati sulla copertina. Comprendevano svariate penne, gomme da cancellare. Matite, e temperamatite.
I più fortunati possedevano quello doppio; dove, in più, c’erano il righello, il compasso, il goniometro e i pennarelli.
Ricordo la mia prima penna stilografica, regalatami da mio padre. Pennino dorato. Inchiostro blu cobalto.
I fogli di carta assorbente. Ogni quaderno ne possedeva uno ed era usato per non lasciare macchie sulla pagina appena scritta. Ma non impediva all’inchiostro di sporcare le dita…
Nel negozio di merceria, una rastrelliera era adibita esclusivamente, da metà settembre a tutto ottobre, ai grembiuli. Tutti naturalmente di colore nero. Fiocco rosso per le bambine. Blu per i maschietti.
C’era chi veniva a scuola sempre con le scarpe nuove e lucide, chi invece come me, con scarponcini consunti e magari già usati dal fratello più grande o da qualche cugino.
Nella cartella non mancava mai la merendina. Chi aveva maggiori possibilità, si fermava in panificio e comprava il pane con l’uvetta. Noi, figli di operai e casalinghe, ci portavamo da casa mezza rosetta, spesso quella del giorno prima, con il burro e lo zucchero.
8:30.
Genitori e nonni si assiepavano emozionati, davanti al grande cancello di ferro battuto. Non potrò mai dimenticare gli occhi di mio padre e mia madre. Commossi. Orgogliosi.
Nell’atrio della scuola Giulio Cesare Parolari, si poteva udire un gran vociare che andava aumentando di minuto in minuto. Gli scolari delle altre classi già si conoscevano. Noi invece, eravamo i remigini. Soli. Emozionati. Guardavamo tutto e tutti con occhi curiosi; spaventati. I ragazzini più grandi si burlavano di noi. I più piccoli piangevano, chiamando la mamma.
Decine di bambini in grembiule. Un oceano nero in continua mutazione.
8:45.
Ingresso in aula. La classe era stata ridipinta durante le vacanze e puzzava di vernice. La lavagna nera troneggiava accanto alla cattedra. Il crocefisso e la foto del Presidente della Repubblica, appesi appena dietro.
I banchi, probabilmente sopravvissuti alla grande guerra, erano di legno con intagliati disegni, nomi di pseudo fidanzatine… fedi calcistiche. Cicatrici di un passato che non voleva andarsene. C’era il buco per il calamaio a memoria dei tempi andati quando si usavano la boccetta d’inchiostro e il pennino per scrivere. Sotto, un’asse più sottile dove riporre la cartella. La mia era rossa. Pesante.
La maestra, una piccola signora con la dolcezza e pazienza di una zia, indossava un grembiule. Rigorosamente nero.
Ci fu il momento della preghiera.
Dell’appello.
Della visita in classe del preside. Figura inquietante che si stagliava sulla porta come un dio greco. Il primo giorno di scuola prevedeva un suo discorso di benvenuto.
Ecco, finalmente, il momento magico. Una frase che rimarrà per sempre stampata nella mia memoria, rimbalzò nell’aula in un silenzio tombale.
“Ora tirate fuori un quaderno a righe e la penna stilografica.”.
Il gesso sulla lavagna si sgretolava stridendo mentre la Signora Maestra ci insegnava i primi rudimenti della lingua italiana.
Con un righello, indicava i fogli appesi alla parete con stampati vari esempi per aiutarci ad imparare a leggere.
A; come ape – B; come bicicletta – C; come casa…
Poi arrivò il momento delle aste.
Quaderni di tremolanti segmenti. Tracciati interrotti sulla riga del quaderno. Verso destra. Verso sinistra.
Solo più tardi a metà anno scolastico saremmo passati ai compiti di bella scrittura. Ma questa è un’altra storia.
Il primo giorno di scuola durava poco. Forse un paio d’ore. Subito dopo si era accompagnati verso l’uscita dalla maestra. L’occhio attento delle bidelle controllava che le file fossero ordinate e silenziose. Silenziose come lo possono essere decine di bambini. Quando il suono della campanella echeggiava nell’atrio, ci catapultavamo fuori. Urlanti. Finalmente liberi…
Mio padre mi aspettava con la sua moto. Una Morini 50cc di colore blu. Salivo davanti a lui tra il serbatoio e il parabrezza.
Mi sentivo come Don Chisciotte in sella al suo ronzino, portato verso nuove avventure dal fido Sancho Panza.
Ancora non conoscevo, fortunatamente, il significato della parola: nostalgia.
Onde melanconiche, che profumano di matite colorate… parole scritte con inchiostri densi di memorie…
Il primo giorno di scuola
11 ottobre 2011 di Mauro Massimo Venturi Rugger
neppure Pennac avrebbe saputo raccontare meglio di così…
😉 Grazieeeee !
Che bello! Ho riprovato l’angoscia del primo giorno..